“Raffaello …non bisogna credere che l’amore esclusivo che ho per questo pittore mi porti a scimmiottarlo…penso che saprò essere originale nell’imitazione”.
J.A.D. In gres
“I maestri consigliano di non fare un’arte povera”.
G. Moreau
“Ritorna il nudo; e con il nudo la bellezza: gli dei ritornano, tenendosi per la mano”.
M. Sarfatti
“Ciò che chiamiamo arte ha a che fare con la facoltà mitologica dell’uomo”.
G. Manganelli
Come è noto, l’Anacronismo nasce alla fine degli anni settanta in opposizione al “prosciugamento dell’arte” perseguito tenacemente dalle neo avanguardie. Il “prosciugamento” era (ed è) collegabile ad uno spirito calvinista e puritano che nega al piacere il posto che questo ha avuto per lungo tempo all’interno dell’arte dell’Occidente. Al di là del gruppo che si proclama “concettualista”, tutte le neo avanguardie infatti, si attestano su di un terreno “mentalista”, un terreno il quale proclama che quello che conta è l’idea e non l’opera, il progetto e non l’artista che mette “le mani in pasta”. La reazione al mentalismo – puritanesimo delle neoavangurdie si ha con la Transavanguardia e con l’Anacronismo; ora, se la Transavanguardia ha concluso da tempo il suo ciclo vitale, l’Anacronismo non solo prosegue il suo cammino, ma acquista nuovi adepti e sembra destinato a lunga e feconda vita. Roberto Ferri è senz’altro uno degli ultimi “acquisti” di questa corrente pittorica; cerchiamo di comprendere a pieno la particolare e personale versione che dell’Anacronismo viene offerta dal giovane artista.
In Ferri l’Anacronismo si presenta come una fede certa e sicura; ci troviamo dinanzi ad una convinzione che affonda le sue radici in un antipuritanesimo consapevole.
Al calvinismo delle neoavanguardie, il pittore oppone un dichiarato e plateale piacere della pittura; al punto in cui siamo oggi, il neoavanguardismo si presenta poi come un vero e proprio “accademismo”, una formula che ripete ormai stancamente se stessa. Ne consegue, necessariamente, che la magia della pittura evocata dagli anacronismi costituisce, per il fruitore, un “trauma positivo” che, paradossalmente, assume le vesti della “novità”. Le avanguardie storiche, nella loro incredibile avventura, ci avevano abituato a continue intrusioni della “novità” sul terreno dell’arte; era evidente che la situazione non poteva durare a lungo; ora, lo ripetiamo, se all’inizio del ventunesimo secolo vogliamo rimanere all’interno della logica del “nuovo a tutti costi”, è all’Anacronismo che dobbiamo rivolgerci. Veniamo ora ad una più precisa definizione dell’Anacronismo; per fare ciò ci appelliamo all’estetica di Stefano Di Stasio; una tale estetica è perfettamente applicabile, infatti, anche alla prassi pittorica e alla poetica dell’emergente Roberto Ferri.
Che cosa sostiene Di Stasio? Sostiene che il prius è prendere atto che l’arte è un fenomeno perfettamente in attuale; l’arte può dialogare con il mondo unicamente se non si illude di concilarsi con questo. Secondariamente bisogna accettare che la pittura è stata dipinta tutta; dinanzi a questo fatto si aprono due sole possibilità: o il silenzio, o il gioco solitario dell’artista il quale, mentre si nutre dello splendore della storia dell’arte dell’Occidente, non si cura minimamente dell’utilità dell’arte stessa all’interno della società. Da qui scaturisce, con spinoziana necessità, che l’arte altro non può fare se non tentare l’epifania dell’Altrove. Ora, che cos’è l’”Altrove”; questo di per se, comporta la sostanziale negazione della mimesi, per cui qualsiasi immagine viene dal pittore stravolta e gettata su di un terreno francamente onirico e surreale. Tutto ciò salta agli occhi se accostiamo la produzione del tarantino a quella di un campione dell’Anacronismo come Leonardo Caboni.
Ovviamente, fin da quando Ferri si è accostato all’opera del “maestro dei dirigibili”, ne è rimasto affascinato; abbiamo sempre parlato, per Caboni, di “realismo irrealistico”; possiamo tranquillamente parlare di “realismo irrealistico” anche per Ferri; ciò che però lo allontana da Caboni è il rifiuto della spettralità metafisica che costituisce la verità ultima della pitture caboniana. Ferri coniuga invece, come abbiamo detto e come diremo ancora, surealtà ed erotismo, un erotismo pronunciato, appunto, da corpi che si nutrono costantemente della loro esibita seduzione. Dobbiamo partire da queste considerazioni, per non tralasciare un nodo decisivo, quello dei rapporti fra l’artista e le avanguardie storiche.
La grande e spericolata avventura delle avanguardie storiche viene decisamente respinta da Roberto Ferri, il suo amore va al Simbolismo e, soprattutto, al Pompierismo. Da quanto abbiamo detto finora si capisce benissimo che le sue “bestie nere” sono Duchamp e il Dadaismo; il giovane artista non accetta assolutamente né la “morte della Bellezza” teorizzata e praticata dall’autore della Ruota di bicicletta, né il passaggio dal quadro all’oggetto; detto questo rimane peròil fatto che non tutta l’esperienza delle prime avanguardie viene rifiutata da tarantino. Dall’opera di distruzione messa in atto da Ferri si salva il Surrealismo. Per quale motivo? Per una ragione molto semplice; nella misura in cui, per l’artista, l’arte è il terreno di manovra di una immaginazione irrefrenabile, non è possibile rifiutare l’apporto di un fenomeno che dell’immaginzione ha coltivato la supremazia assoluta. Affronteremo più dettagliatamente la questione quando, al termine di questo lavoro, leggeremo almeno una delle opere ferriane; cerchiamo di cogliere ancora i movimenti interni della poetica dell’artista.
Prestiamo attenzione agli “oggetti” di cui Ferri fa largo uso; la conclamata preziosità di questi serve come l’argomento polemico, come arma da usare contro il poverismo e l’anoressia delle neoavanguardie; non a caso abbiamo citato in epigrafe la frase di Gustave Moreau sui maestri antichi e sull’opulenza della pittura. Come dicevamo, anche il Simbolismo esercita la sua influenza letale sul giovane tarantino; spesso e volentieri, infatti, le sue “macchine” perverse e dorate fendono i corpi; non ne alterano però l’integrità e lo splendore ontologico. Tutto ciò denuncia la presenza di un irrinunciabile sogno di classicità. Ciò accade perché alla base della scelta di Ferri si colloca (decisamente e trionfalmente) la religione romantico- pagana dell’Eros e della Bellezza. Ecco spiegato perché il giovane artista evoca a più non posso le divinità del paganesimo; gli dei costituiscono, infatti l’incarnazione compiuta del Desiderio, quel Desiderio che non può non innamorarsi dell’eterna epifania della giovinezza. Giungiamo così all’asse portante del intera ricerca di Ferri: il neocaravaggismo.
Tutti noi, quando nasciamo, veniamo “gettati nel mondo”come dice Martin Heidegger; Ferri, ovviamente, non ha scelto di vedere la luce nel corso del ventesimo secolo; se avesse potuto scegliere, avrebbe senz’altro preferito il Cinquecento o il Seicento; di qui l’amore per Caravaggio e per la grande stagione pittorica secentesca. La dialettica buio-luce viene però, dall’artista, piegata ad esigenze e scelte che non hanno nulla a che vedere con le intenzioni di Michelangelo Merisi. Questo accade non solo per evidenti motivi storici, ma perché una tale dialettica è funzionale ad un discorso diverso; quale? Come è noto, la dialettica buio- luce è legata in Caravaggio, ad una visione squisitamente teologica e penitenziale (1). Ferri, che è sostanzialmente un pagano, garantisce che quello che emerge dall’ombra è sempre la carne, una carne a cui è ignota la trascendenza e che risulta magnificamente avviluppata nel proprio destino di provocazione. A questo punto, per verificare quanto detto finora, leggiamo almeno un dipinto di Roberto Ferri.
Ne Il Traghettatore quello che abbiamo detto finora risulta documentato e palesato. Dal buio pesto di un “luogo” che, in realtà, è un “non-luogo”, appare, di spalle, un busto di un giovane eroe; nascoste la testa e le gambe; a sinistra di chi guarda un tendaggio barocco. Non possiamo scorgere gli occhi del Traghettatore perché non è all’anima che punta il pittore, il suo campione è corpo e la sua anima parla esclusivamente attraverso il linguaggio spudorato del corpo.
Nudità e lusso si inseguono reciprocamente all’interno di un ambiente di cui non sappiamo nulla e di cui non sapremo mai nulla. “Che cosa amerò se non l’enigma?” vale sia per de Chirico che per Ferri; l’enigma però, nel tarantino, non si accompagna alla freddezza degli spettri; tutto il contrario.
Dove va il Traghettatore che possiede un remo ma non una barca? Non va da nessuna parte perché gode solo del proprio esserci; questo poi, per denunciare il suo intimo sublime, si ammanta di Storia e di Memoria. Al di floridi queste, per Ferri, non sia dà arte; nello stesso tempo ribadisce che l’arte è rinchiusa nello scrigno prezioso e separato della pittura. La “separatezza”, a sua volta, altro non è se non la documentazione efficace della sostanziale irriducibilità dell’arte al quotidiano. Certo la pittura è comprata e venduta; ciò non toglie che essa, grazie proprio alla sua anacronistica posizione all’interno dell’attualità, si “mette da una parte” e tesse immagini e visioni che nulla hanno a che vedere con la miseria dei fenomeni. Chi scrive ha definito più volte questa idea dell’arte come notturna; in Ferri la “Notte” è doppia perché il destino concettualmente “lunare” della pittura si consuma all’interno di uno spazio abissale che, lo ripetiamo, fa da giusta cornice alla luce della carne. E’ questa, per Roberto Ferri, l’unica verità che la voragine riconosce come sua e con la quale investe chiunque si avvicina al quadro e che rimane folgorato essendo quest’ultimo nient’altro che una perfetta e compiuta realizzazione del Desiderio.
Robertomaria Siena
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